BURIAL / BLACKDOWN – Shock Power of love Ep (Keysound)

 

Il ritorno di Burial per chi, come me, venne folgorato sulla via di Damasco o, forse è meglio dire del Plastic People, non passa inosservato.

Sono passati 15 anni da quel disco omonimo che, nella club culture ed in particolare nella dubstep, rappresenta il manifesto di un nuovo suono; per certi versi l’ultima grande rivoluzione sonora contemporanea, figlia di quella ricerca iniziata tra i garage di Bristol altri 15 anni prima con il trip hop.

Burial ha messo un punto sull’esperienza downtempo prima e breakbeat poi che aveva caratterizzato gli anni ’90, ed ha rilanciato uno stile tessendo architetture sonore fino a quel momento impensabili. Suoni cupi, samples di voci ultrapitchati, ritmiche disorientanti.

Come detto, a 15 dal suo debutto e non una particolarmente florida produzione (ma forse è meglio così) Burial è tornato con uno split Ep in compagnia di Blackdown. Due tracce ciascuno, che nella filosofia Burialiana possono significare tutto e niente in una nube di fumo nella quale è impossibile anche solo percepire gli intenti discografici dell’artista inglese.

Eì proprio la subcultura dei club, del Plastic People citato all’inizio. Locale in cui ebbi la fortuna di andare nel lontano 2009. Una paio di rampe di scale. Una stanza che più buia non si poteva. Bassi spropositati, impossibilità di comunicazione e la sensazione che non c’era posto migliore in cui essere in quel momento.

Le tracce di Burial e Blackdown si distinguono chiaramente le une dalle altre, il kick 4 on the floor di Blackdown viene “delicatamente” sostituita dai break sincopati di Burial in “Dark Gethsemame”.

Anche per durata direi che i 2 artisti accentuano decisamente la loro differenza, Blackout ci regala 2 tracce “canoniche” per la dance music (4 minuti probabilmente bastano), Burial invece non avendo problemi di incisione su vinile o cd dispiega entrambi i suoi brani per oltre 9 minuti, costringendo l’utente a fare una cosa che è sempre più una rarità: ascoltare dall’inizio alla fine.

Perché 9 minuti con Burial non sai mai a dove possono portare. “Space Cadet” è una suite, assolutamente distopica con ogni regola di mercato (come se a Burial fosse mai interessato qualcosa del mercato).

Un Ep, questo “Shock Power of Love” che sicuramente non aggiunge nulla a quanto già prodotto da Burial, ne segna solo l’ennesimo ritorno (nel 2020 uscirono 3 brani, di cui 2 con la non secondaria partecipazione di Thom Yorke e Four Tet), sperando possa essere il viatico per la realizzazione di un nuovo album.

Bicep – Isles

Esce il secondo album dei Bicep, Isles, a 4 anni dal primo album omonimo.

Il duo di Belfast rimane in casa Ninja Tune, ed esce con un album che risente dei tempi nefasti che tutta la musica, ma soprattutto quella da ballo, sta vivendo.

Album dalle sonorità più raccolte ed a tratti introspettive, venato da riff dance a tratti malinconici ma con alla base linee ritmiche classiche della club culture.

Il risultato è un disco riuscito a metà: i Bicep ci dissetano con il fluire della house e della future garage ma ci lasciano sempre sospesi con inserimenti di voci angeliche e sognanti pad in minore.

Il sound di Andy Ferguson e Matt McBriar, che richiama fortemente l’ambient della metà anni 90, rimane stabile, senza picchi, e dopo un paio di brani comincia a risultare difficile all’ascolto.

La fragilità delle strutture dei brani è la causa prima di questa difficoltà, i tratti onirici dei pezzi cadono per stanchezza, quasi a sembrare riempiti di loop spezzati, ritmici e modali calcolati per produrre il minutaggio sindacale.

Nel complesso un lavoro elegante, ma che raggiunge, in questa versione da ascolto in studio, un voto poco sopra la sufficienza.

 

 

 

Einstűrzende Neubauten Alles in Allem

Quando ci si imbatte in un nuovo lavoro discografico di una band o di un artista con alle spalle una carriera decisamente longeva, personalmente, mi trovo sempre in difficoltà. La difficoltà è quella i non sapere mai se l’“analisi” sul nuovo lavoro debba essere fatta tenendo insieme (anche in modo deciso) tutta la discografia e tutto il percorso dell’artista in questione. Pur rendendomi conto che sto ascoltando il disco nuovo è difficile che la mente non viaggi nel tempo, che non faccia paragoni, che si limiti cioè al puro ascolto.

Nello specifico poi in questo caso parliamo di 40 (già) anni di carriera, perché gli Einstűrzende Neubauten cominciano la loro storia nel 1980 in una Berlino ovest in piena guerra fredda, generazione “figlia” della seconda guerra mondiale e “genitore” di quella Germania post abbattimento del muro.

Su cosa potesse significare fare musica a Berlino negli anni ’80, pensando al punk, alla new wave, alla situazione politica nel mondo, a quella tedesca, a Berlino intesa come realtà sociale decisamente “insolita” meriterebbe un capitolo intero nella grande enciclopedia della musica.

Sui primi Einstűrzende, per chi non li conoscesse, mi limito a dire che nei loro primi lavori l’utilizzo di strumentazione “non convenzionale” era una peculiarità dominante: martelli pneumatici, trapani, percussioni create da oggetti come lamiere e tubi. Tutto questo non era assolutamente una scelta estetica, ma il tentativo di ridurre a zero la distanza tra cultura e società. Portare nei live e nei dischi suoni “quotidiani” della città, di quella città in cui vivevano e che vedevano quotidianamente trasformarsi.

Nel corso degli anni quel tipo di approccio ha subito moltissimi cambiamenti ed evoluzioni, in un percorso naturale che non poteva non tenere conto di come la società tedesca/berlinese stesse cambiando e di come una globalizzazione culturale ed economica rendesse necessaria una “dilatazione sonora”.

In sintesi sono 2, a mio parere, gli elementi significativi di questo processo di cambiamento: la progressiva eliminazione proprio di quegli “oggetti sonori” così brutali di cui sopra (sostituiti d più “raffinate” strutture percussive e sonore modellate ad uso e consumo della band) e, secondo elemento, una ricerca della “forma canzone” più conforme ad una visione “classica”.

Berlino smette di essere una metropoli in cui l’urbanizzazione è un dogma, la riunificazione crea nuovi spazi, nuove possibilità architettoniche e strutturali. Questa nuova consapevolezza di sé, anche agli occhi del mondo, si riflette nella musica della band tedesca.

 

Le atmosfere si fanno più rarefatte. Gli spigoli lasciano spesso il posto a curve. Tutto risulta più fluido, unica costante la voce. Lapidaria. Secca. Intensa: Blixa Bargeld infatti non corre certo il rischio di non essere riconoscibile non appena inizi a cantare (anche se a volte il concetto di cantare è troppo limitativo).

 

Spazi e suoni che dunque si dilatano, si allungano fino a risultare, a volte, infiniti. Un tappeto sonoro sul quale le ritmiche però non smettono mai di incedere ed incidere.

Ed eccoci qui, ad oggi, al quattordicesimo album in studio (a 6 anni di distanza dal precedente lavoro, Lament), Alles in Allem compare in piena pandemia, nei silenzi assordanti delle quarantene e dei lockdown di tutto il mondo.

L’album si sviluppa in un percorso di 10 tracce che rispecchiano perfettamente dove avevamo lasciato la band berlinese. Meno violenta forse, più riflessiva probabilmente, ma sempre capace di non lasciare impassibili.

Non lasciano impassibili gli arrangiamenti che oramai non sembrano più voler stupire o eccedere, come se la misura fosse la nuova trasgressione. Le bassline tonde e dense cavalcano le ritmiche mai banali, mai scontate, mai prevedibili.

Fare rumore non è più una necessità, tantomeno seducente…d’altronde già a inizio millennio il cambio di rotta era ben presente nel titolo di un loro album: Silence is sexy, anche se un brano come Zivilisatorisches Missgeschick rievoca antichi “fastidi uditivi”, subito però sostituiti dagli archi avvolgenti di Taschen.

La title track Alles in allem (tradotto è “tutto sommato”, decisamente più sarcastico di un “andrà tutto bene”)  una tipica ballata romantica di questi Einstűrzende dal ritornello (“Tutto sommato /Tutto allo stesso tempo /Tutto in una volta / Tutto in una volta”) che difficilmente non si presta ad una lettura in chiave pandemica. Chiude l’album Tempelhof, un violoncello ed un’arpa accompagnano l’uscita di scena di Blixa e soci; un nuovo capitolo, anzi un nuovo tomo si chiude con la certezza di non sapere affatto cosa accadrà dopo, se mai ci sarà un dopo, o se già questo non rappresenta il loro dopo.

Tutto sembra così diverso, ma qui si torna alla premessa con cui ho volutamente iniziato. Senza l’ascolto della discografia degli Einstűrzende non sarebbe possibile cogliere il percorso, il viaggio attraverso a storia che la band ha fatto. Il corto circuito sonoro risulterebbe irrisolvibile, ma non c’è corto circuito, non c’è un cambio di rotta…c’è il semplice spostarsi, anzi il farsi spostare dagli accadimenti senza esserne però spettatore passivo.

Negli Einstűrzende l’impressione che uomo ed artista siano davvero perfettamente aderenti l’uno all’altro e che il percorso di vita sia speculare a quello musicale e viceversa.

Franz Ferdinand – Always Ascending: Recensione

I Franz Ferdinand sono una delle poche band sopravvissute al movimento indie pop/ indie rock del decennio 00. Ascoltando Always Ascending posso però decretare che l’estinzione del movimento sia stia avvicinando a passi veloci.

Il chitarrista storico Nick McCarthy se n’è andato ed è stato sostituito dal chitarrista Dino Bardot e dal produttore polistrumentista Julian Corrie: queste nuove entrate però non hanno dato al gruppo la spinta necessaria a farlo ripartire con il passo deciso. Il sound si è perfezionato e mantenuto sui canoni che hanno segnato la discografia della band scozzese, ma le canzoni sono costruite in modo furbo e poco accattivante, risultando a tratti noiose e autoreferenziali

Il pop rock meccanico dei Franz Ferdinand è sempre stato molto legato alla voce croon di Alex Kapranos, ma in questo album il tono acerbo e straziante spesso decade, quasi inibito e stonato in modo irritante, su ritmiche stanche che spaziano dal sinth pop, al brit rock fino all’orchestrale.

Un’ascolto su spotify fatelo, ma se dovete comprare un disco ci sono vinili o cd più belli, usciti in questo periodo, su cui investire i vostri soldi.


 

 

St. Vincent – Masseduction : Recensione

St. Vincent in Masseduction è irritante, dolce ed abrasiva

St. Vincent / Annie Clark  genera sempre una plurima serie di emozioni nei suoi dischi: ansia, dolcezza, irritazione, energia.

Questo sesto album della cantante e pluristrumentista di Tulsa non si muove dal solco tracciato nelle produzioni precedenti. Meccanica nei beat, chitarre dalla distorsione iperbolica e synth sono la base portante di Masseduction, sopra la quale la voce di Annie Clark si inerpica in virate pop deliziose.

Ballate romantiche con pianoforti e chitarre in slide fanno da contraltare a pezzi bizzarri, urlanti e addolorati. Alla base di tutto il desiderio trasgressivo ed il rifiuto romantico dovuto alla recente la rottura con la sua ex ragazza Cara Delevingne.

La produzione di Jack Antonoff porta alla creazione di un disco accattivante e sorprendente. Senza dubbio un disco abrasivo, da ascoltare in loop

Beck – Colors : Recensione

Beck lanciato nell’iper pop.

Il 13simo album dell’artista di Los Angeles è finalizzato, per sua stessa ammissione, a farvi canticchiare. Per raggiungere il suo obiettivo Beck si è rimesso a lavorare con Greg Kurstin, suo ex chitarrista, diventato intanto una macchina da produzione hit per artisti pop rock come Katy Perry e Adele.

Cosa ne viene fuori? Qualcosa di piacevole a dire il vero. Superato un primo iniziale disappunto per un Beck così ammiccante, poi il disco si fa ascoltare.
A dire il vero riuscirete anche ad ascoltare un po’ di Beatles in “Dear Life”, un po’ di Bruno Mars reggae mood in “No Distraction”,  e troverete,  in tutti i pezzi dell’album, un po’di riferimenti a tutto quello che passa per radio in questo momento.

A parer mio questo disco ha un po’ l’aria di essere una mezza via tra qualcosa di artisticamente consapevole ed una mezza presa per il culo all’industria discografica.

Io lo sto ascoltando volentieri comunque, se li sapete cogliere, dentro questi pezzi ci sono alcuni lampi di genio. Beck alla fine è sempre Beck.

 

Live – Architects + guests @ New Age Club (5.11.2016)

 

Il tempo di Treviso, Sabato 5 Novembre, non è dei migliori; la pioggia cade copiosa, ma non scoraggia gli avventori del concerto che puntuali si presentano al New Age.
Da subito il locale appare gremito, ma fortunatamente vivibile.
La serata prende avvio con il live dei Bury Tomorrow, band di Southampton capitanata da Daniel Winter-Bates, che avevo già avuto il piacere di ascoltare nel lontano 2010.
La scaletta è breve, ma intensa. Sei pezzi tra i più famosi della band, ma nessuno proveniente dal primo album Portraits (sad Ross).
I ragazzi erano già bravi la prima volta che li ascoltai, ma l’esperienza in questo campo è una grande alleata: bei suoni, grazie anche all’ ottimo mixaggio del set, tanto cuore, espressività e tecnica che non guasta mai. La voce pulita è chiaramente udibile e non relegata nel background come spesso capita ed è un piacere ascoltarla, lo scream/growl è potente e contemporaneamente morbido e a tratti quasi dolce. Avere l’occasione di sentire live una band, diversi anni dopo averla ascoltata la prima volta, e constatarne un progresso enorme è sempre una grande soddisfazione.

La serata prosegue con gli americani Stick to Your Guns provenienti direttamente da Orange County in California. Da subito mi scatta il ludro perchè il mixaggio fa pena: la cassa della batteria praticamente non si sente, come la voce pulita e quindi, purtroppo, non mi godo a dovere il loro set anche se è innegabile siano molto bravi e coinvolgenti.

Infine, ecco arrivare gli Architects. Una sola parola può descrivere questa band: IMMENSI.
La prematura scomparsa di Tom non li ha fermati dal proseguire il tour, anzi Dan, il gemello di Tom, subito dopo la sua scomparsa ha dichiarato che avrebbero proseguito per rendergli omaggio, ma non nascondo di averli trovati particolarmente provati e in un certo senso spenti, ma sono perfettamente giustificati.

Il concerto è assolutamente magnifico, setlist ben organizzata e pubblico partecipe.
Il momento più commovente arriva al termine del set quando Sam Carter parla al pubblico e cala un silenzio assurdo, seguito da un coro che urla il nome di Tom, per poi concludere con “Gone with the wind” nella quale Sam, probabilmente, ci lascia un polmone pur di farla arrivare più in altro possibile.

Inutile dirvi che gli Architects sono ineccepibili, la loro bravura è ormai assodata da anni di carriera e di live, nonostante la tragedia che li ha colpiti hanno avuto la forza di andare avanti e mi chiedo quale altra band l’avrebbe fatto così nell’immediato.

Editors @ Home Festival 2 Settembre

home editors

Foto : Home sito ufficiale

Festival perfettamente funzionante quello di Treviso che vede nella prima giornata susseguirsi di nomi validissimi sui numerosi (forse troppi…) palchi del festival. In attesa degli Editors scopro con mia somma gioia un artista che non conoscevo : Dardust. Live ipnotico e coinvolgente, con un trio molto potente e teatrale. Se avete voglia fateci un ascolto, merita.

Gli Editors si presentano sul main stage verso le 23, pubblico numeroso ma non troppo (le serate successive avranno numeri ben superiori). Live compatto, leggermente più corto del solito con la maggior parte dei brani presi dagli ultimi album della band inglese :  The Weight Of Your Love e l’ultimo In Dream.

Molta new wave 80 quindi (anche se l’ultimo album è un po’ bruttino), con il gruppo che si muove bene sul palco ed un Tom Smith che tiene bene il pubblico per tutta la durata del live. E’ però nei cavalli di battaglia che il pubblico dell’Home esplode e balla :  A Ton Of Love e Papillon sono i pezzi che tutti aspettavano.

Editors sempre validi in live : con i prezzi popolari dell’Home Festival non andavano assolutamente persi.

 

Scaletta

No Harm Sugar Smokers Outside the Hospital Doors The Racing Rats Forgiveness Eat Raw Meat = Blood Drool Formaldehyde Munich All the Kings The Pulse Ocean of Night A Ton of Love Papillon Marching Orders

QUEEN: A NIGHT IN BOHEMIA – Live at Hammersmith Odean 1975

Il trailer recitava <<La prima esibizione live registrata di Bohemian Rhapsody>>

ed io della generazione di Innuendo non potevo che andare e vedere le origini di un gruppo che volenti o nolenti sostenitori o detrattori ha scritto un pezzo di storia della musica.

La proiezione del concerto Live at Hammersmith Odean 1975 è preceduto da una buona mezz’ora di interviste, dove scopro che Brian May avrebbe voluto studiare Fisica e se non si fosse messo con i Queen sarebbe diventato un collega di @mathsara, che Freddy Mercury grafica, Roger Taylor odontoiatria e John Deacon ingegneria. Le interviste sono interessanti e svelano come seppur agli iniz fossero già delle star, molto sicure e determinate nel loro percorso anche se ancora alla ricerca di una propria identità considerato anche ciò che il destino gli avrebbe riservato gli anni a venire. We will rock you uscirà solo nel 1977.

Il concerto inizia tra fuochi d’artificio Brian May sempre con la solita pettinatura e il mantello da Mago Zurlì e racconta la storia dei Queen raccontata attraverso uno storico concerto Live registrato dalla BBC in diretta televisiva la notte di Natale del 1975, il suono (surround 5.1) restaurato è bellissimo e non fa pesare il fatto che siano trascorsi oltre 40 anni. Le canzoni si accompagnano a coretti della sister che mi ha accompagnato al cinema, ma non siamo le sole.

Alla fine considerato tutto il documentario del live rende l’atmosfera della serata considerata anche la tecnologia di quegli anni. Alla fine del concerto il pubblico in video urla “WE WANT MORE, WE WANT MORE…” io e la sister ci accodiamo al coro consapevoli di quello che sarebbe accaduto dopo.

 

locandina

Queen

INDIEFLIX e “Scenes from the Suburbs”

Onorata la festività del primo maggio torno con un mediometraggio che mi permette anche di parlarvi di un servizio gratuito offerto dalla Mediateca di Cinemazero Pordenone ( http://cinemazero.medialibrary.it/media/scheda.aspx?id=550198502 ) . Ovvero tutti i tesserati della mediateca possono fare richiesta di accesso allo streaming di Indieflix comodamente da casa. La richiesta va fatta al desk della Mediateca, in seguito viene assegnata una id e password e dopo di che ci si può collegare da qualsiasi postazione collegata a internet e accedere allo streaming di Indieflix.

I titoli non sono conosciutissimi e fanno parte della scena cinematografica indipendente, ma si trovano cose molto interessanti che hanno magari anche partecipato a festival ma che poi non hanno trovato distribuzione nel nostro paese, sono principalmente in inglese e quindi un bel esercizio anche di lingua.

Questo mi ha permesso di vedere “Scenes from the Suburbs” un mediometraggio di Spike Jonze (USA 2011) ispirato all’album degli Arcade fire “The Suburbs” qui la musica ha ispirato le immagini e non viceversa come spesso accade. In realtà alla sceneggiatura, oltre a Spike Jonze, hanno lavorato anche i fratelli Butler. 

“Scenes From The Suburbs” racconta la quotidianità di un gruppo di amici che vivono in una città che sembra essere in una sorta di stato di emergenza ci sono molti posti di blocco e i ragazzi sono spesso sottoposti a controlli da parte dei militari, una violenza che incombe su tutto il film.

La colonna sonora è firmata Arcade Fire, e quindi se li amate non potete non vederlo.

 

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