LENZ-DE FAULT – recensione

LENZ-DE FAULT
Ovvero quando la ruggine s’infila nell’anima.
New wave e post-punk anni ottanta, con gusto moderno e sicurezza da musicisti affermati. Disillusione e disagio per relazioni ormai concluse o poco soddisfacenti, ballatone in chiave blues  mescolate di industrial, con una voce calda a guidarci attraverso gli spettri di una quotidianità che poco accettiamo.
Un gusto amaro di ruggine che però diventa agrodolce e torniamo volentieri ad assaggiare.
Voto 3,5/5

http://www.youtube.com/watch?v=KJt0u64egUE

L’immaginario che circonda la musica di Lenz mi ha piacevolmente destabilizzato.

Visitando il suo sito, guardando i video dei suoi live, fin dalla copertina dell’album “De Fault” ed i colori usati: c’è un senso di ruggine, un senso di amaro e di consumato, di disagio e sofferenza.
Lenz potrebbe essere affine al Bianco Delle Ossa: stessi temi di quotidianità e conflitto sociale (uno su tutti valga il testo di “Murder In A Small Town”, dove la critica si colora di ironia e qualche caduta di buon gusto ad onor del vero), stesso rapporto con i fantasmi, comune voglia di esprimere una propria identità in un contesto quale la ruralità di Sansepolcro presso Arezzo, dove Damiano Lanzi, accompagnato da Lidia Manzano alla batteria e synth, Tommaso Nasini, Davide Meazzini e Tarek Komin, rispettivamente chitarre e tastiere, registra questo suo esordio in un capannone industriale.
Emerge una produzione accurata sui suoni di matrice post-punk, new wave, alla Interpol (ma senza le cavalcate rock e la velocità della composizione) per citare qualcosa di più moderno rispetto ai padri Joy Division e The Cure. C’è disagio e sconforto, quel pungente cinismo che talvolta diventa presunzione, il self control e la calma della sicurezza del messaggio che intende trasmettere e dello strumento scelto per trasmetterlo, l’individualismo per prendere la distanza da una socialità che non comprendiamo e che non ci appartiene: ed è così che questa attitudine si rispecchia in un blues-rock ripetuto e granitico, l’album risulta molto compatto, la voce calda e possente di Damiano conferisce ulteriore solidità al susseguirsi delle canzoni, solo “Calligraphy” squarcia l’oscurità del disco con una ballatona che strizza l’occhio ad un folk più melodico. Ma l’oscurità sopracitata non è in tinta nera, è più ocra, oppure appunto ruggine. Un album in cui si evincono le influenze del filone new wave industrial anni ‘80, ma con una cura ed una attenzione molto contemporanea. Meno stomaco e cuore, e più ragione: è sufficiente dare un occhio agli strumenti utilizzati nella registrazione del disco, per capire la profondità con cui i musicisti coinvolti si sono approcciati a questo album. Il tutto condito con capacità: da sottolineare il suono e la composizione.
Lenz è come un leader di qualche gruppo ormai stagionato, che ha smesso di urlare la propria rabbia ed il proprio punto di vista sul mondo, per esprimersi con disarmante calma e sicurezza.
Mi ha fregato, dicevo, perchè non fa un genere che particolarmente apprezziamo, né fa qualcosa per rendersi particolarmente attraente , ed anzi sarò sincero, la prima impressione era ben lontana dal giudizio finale, ma ci è rimasto in testa, ha suscitato la nostra curiosità, si è insinuato nel nostro gusto.
                                                                                                              il PIETRA (il bianco delle ossa)

 

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