“AL SAGOR plays MONK”, Giorgio Pacorig reinterpreta il repertorio di Monk a Dobialab (GO)

alsagor3MARTEDI SONORI 2014
In collaborazione con l’ Associazione culturale PHOPHONIX
Martedì 11 febbraio ore 21:15“AL SAGOR plays MONK”
GIORGIO PACORIG – Farfisa Matador, Korg MS20, melodica

Giorgio Pacorig re-interpreta il repertorio di Monk avvalendosi di una originale strumentazione analogica.Ha cominciato a suonare il piano a otto anni e dal 1987 si dedica al jazz e alla musica improvvisata. Nel 1996 ha ottenuto il diploma in pianoforte al Conservatorio “G. Tartini” di Trieste e da allora la sua intensa attività musicale l’ha portato ad esibirsi in numerosi festival, teatri e club. Nel 2001 con altri musicisti del Nordest ha fondato l’associazione Phophonix per lo studio, la promozione e la diffusione di attività per ensemble di musica improvvisata, facendo nascere l’Orchestra Phophonix. Dal 1999 al 2007 ha collaborato con la cantante pop Elisa Toffoli. Ha partecipato anche a progetti multimediali che coinvolgono il cinema (Zerorchestra), la pittura (“Nosorog – multimedia performance” con la sassofonista Jessica Lurie e l’illustratore Danijel Zezelj), e il teatro (“Abbastanza: assenza e presenza”, ideato da Tristan Honsinger). Nel 2009 è stato project manager dell’ “Orchestra de mati de Trieste”, nata all’interno del Dipartimento di Salute Mentale, organizzando workshops musicali allo scopo di coinvolgere utenti e pazienti.
Ha suonato con Giovanni Maier, Tristan Honsinger, Daniele D’Agaro, Massimo De Mattia, U.T.Gandhi, Claudio Cojaniz, Gianluigi Trovesi, Giancarlo Schiaffini, Antonello Salis, Cuong Vu, Zeno De Rossi, Vincenzo Vasi, Danilo Gallo, Enrico Terragnoli, Piero Bittolo Bon, Francesco Bigoni, Antonio Borghini, Mauro Ottolini, Johannes Fink, Gerhard Gschlößl, Christian Lillinger, Phil Minton, Kawabata Makoto, Marc Ribot, John Tchicai, Ab Baars, Joe Bowie, Don Moye, Edoardo Marraffa, Massimo Pupillo, Achille Succi, Lauro Rossi, Lullo Mosso, Michele Rabbia, Francesco Cusa, Gianni Gebbia, Virginia Genta, David Vanzan e molti altri, e pubblicato per Nota Records, Splasch, El Gallo Rojo Records, Artesuono, Palomar Records, Setola di Maiale, CAM Jazz.

Live – Albert Hammond Jr. @ Covo Club Bologna

aj2 Sabato 14 dicembre me la sono spassata al Covo, club underground di Bologna, nonché uno dei locali italiani che preferisco in assoluto.

E sul palco c’era Albert Hammond Jr., mica uno qualsiasi.
Già.
Albert Hammond Jr. ovvero il figlio di Albert Hammond, cantautore inglese anni ’60 di discreto successo (sua la nota “It never rains in southern California”, ndr), ma soprattutto chitarrista dei The Strokes assieme al talentuoso Nick Valensi.
Albert dei due, benché sia comunque un chitarrista coi fiocchi, non è di certo il più dotato tecnicamente, ma invece ha avuto delle gran belle intuizioni come solista, rilasciando due album e un EP, “AHJ”, uscito l’8 ottobre di quest’anno.
Chiariamo: a parer mio il genere, i suoni, alcuni riff ricordano quelli ideati dal frontman/genio dei The Strokes Julian Casablancas, ma nonostante questo denotano una maggior dolcezza, anche nei testi, e questo mi piace molto.
Albert insomma è un ragazzo che apprezzo davvero tanto e ciò, unito alla mia assoluta venerazione nei confronti dei The Strokes, mi imponeva di presenziare alla terza data del suo minitour italiano che si svolgeva nella capitale felsinea.

Il concerto inizia intorno alle 23, in un Covo strapieno, con un clima caraibico e un’inaspettata terza fila nonostante fossi arrivato in ritardo (così, tanto per cambiare).
Sul palco, oltre a Hammond con la sua fedele Stratocaster bianca, ci sono altri due chitarristi, un basso e una batteria confinata nelle retrovie: d’altronde lo spazio del palco del Covo è quello che è, si sa.
Mi colpiscono subito le tre chitarre: che potenza di fuoco! Ci piace!
Si inizia alla grande con due dei miei pezzi preferiti, “Everyone gets a Star” e “Scared”, direttamente dal primo album solista “Yours to Keep” per poi proseguire con roba nuova nuova come la bellissima “St. Justice” dell’ultimo EP, “AHJ” appunto, e con altre chicche come ad esempio “GfC”, dal secondo “‪¿‬Còmo te LLama‪?‬” del 2008.

E’ un incalzare di riff di chitarra straordinari, con musicisti, specialmente i chitarristi, che si esibiscono in finissimi virtuosismi e con un pubblico che si dimostra sempre caldo e coinvolto.
Albert è in gran forma e molto ispirato: i problemi (innumerevoli) con le droghe sono ormai cosa passata, e scusate se non è così scontato da parte di uno che si iniettava mix di eroina, cocaina e ketamina fino a 20 volte al giorno e che ha vissuto un periodo discretamente lungo vagabondando da una clinica all’altra (lo ammette molto candidamente e, oramai, con una certa consapevolezza lui stesso nelle interviste, altrimenti non vi riferirei mai nulla del genere su nessuno, figuratevi se su uno degli Strokes, ndr).
Lui, in barba alle malelingue, è lucido e indiavolato con la sua Stratocaster in mano, il gruppo risponde altrettanto bene e il culmine del godimento (per me soprattutto) arriva con “101”, sempre da “Yours to Keep”, pezzo semplicemente straordinario e che per me vale da solo l’intero prezzo del biglietto.

Un’ora e mezza di puro godimento, di musica di altissimo livello, di botta e risposta scherzosi con il pubblico, per poi salutare teneramente e abbandonare il palco scortato dai bodyguard in mezzo alle persone adoranti, conscio di aver regalato tanta emozione, soprattutto a me.
Questo è stato sabato 14 dicembre al Covo Club di Bologna.
Questo è stato Albert Hammond Jr.

Recenzione – Skid Row Live@Palacus Udine

SkidRowLiveUdine“Non c’è più Sebastian Bach”, “sono finiti”, “hanno 50 anni”; sono le frasi più classiche quando non si ha voglia di staccare il proprio tessuto adiposo dalla comodità del divano.

Invece nonostante l’età non più rosea, gli Skid Row danno una lezione di stile a tutti i rockettari accorsi all’ultima tappa dello United Rebellion European Tour.

Il duro lavoro di scaldare la folla dal freddo udinese spetta ai nostrani The Morning, che propongono un rock alternativo ben costruito, sfortunatamente per loro però il tempo non è dalla loro parte e dopo una manciata di canzoni, lasciano spazio alla support band di questo tour, i Dead City Ruins, hard rock band australiana con gran suoni e buona presenza scenica soprattutto del Singer che si lancia ovunque tra salti, bevute di Jack e acuti che fanno vibrare i timpani a tutti i presenti, ma apparte qualche errore di esecuzione, anche per loro 6 canzoni devono bastare e lasciano il palco ai maestri dello “sleaze rock” made in New Jersey.

Sono le 22 esatte quando si sentono le note di Blitzkrieg Bop dei Ramones, e proprio all’ultimo urlo di “Hey Ho Let’s Go” che la band salta sul palco sulle note di “Let’s Go”; la folla non ci mette molto a reagire e dimostra subito affetto ai “nostri”.

I pezzi si susseguono senza tempi di respiro, ripercorrendo la loro carriera iniziata nel 1987 e colmata da successi come i primi due album “Skid Row” del 1989 e “Slave To The Grind” del 1991, tra questi le intramontabili ballad come “18 and life” e “I Remember You” che han scaldato le ultra trentenni scatenate sotto palco.

Considerando che fosse l’ultima tappa del tour europeo, sicuramente hanno scaricato le ultime energie sul palco, alternandosi in numerosi siparietti, musicali e alcolici, fino all’arrivo dei bis, in cui sul palco compaiono tutti i membri dei Dead City Ruins, e con una formazione di due cantanti, due batteristi, due bassisti e la bellezza di quattro chitarristi, si odono le prime note di “Highway To Hell” degli immortali AC/DC; è un tripudio di urli e salti da parte della folla, fino a quando a brano finito, gli Skid Row salutano con l’inno di più di una generazione, a rimanere giovani forti e senza compromessi sempre, “Youth Gone Wild”, ed è proprio al momento clou della canzone, quello dello scambio di cori col pubblico, che entrano i giovani della band australiana vestiti da animali di tutti i tipi, dal tigrotto al coccodrillo, intonando i cori insieme alla band e ballando vorticosamente attorno a loro. Una festa più che un concerto, e sicuramente riuscita al 100%.

 

Scaletta:

1 Let’s Go

2 Big Guns

3 Makin’ a Mess

4 Piece Of Me

5 18 and Life

6 Thick Is The Skin

7 Riot Act

8 In a Darkened Room

9 Psycho Therapy (Ramones cover, Rachel Bolan alla voce)

10 I Remember You

11 Monkey Business

Bis:

12 Slave To The Grind

13 Highway To Hell (AC/DC Cover)

14 Youth Gone Wild

Live – Foals @ Alcatraz Milano

FFF Finalmente.
Finalmente è successo.
Finalmente i Foals a Milano.

Dopo mesi di attesa spasmodica, in particolare mia, giovedì 24 ottobre i Foals si sono esibiti all’Alcatraz per l’unica data italiana del loro Holy Fire Tour. Inutile dire che le aspettative da parte di tutti erano enormi…e non sono state deluse.
Ma procediamo per gradi.
Milano è sempre Milano, il dannato traffico è sempre in agguato, e nonostante mi sia preso in tempo vari contrattempi mi hanno fatto arrivare all’ultimo, o meglio, non all’ultimo, ma mi hanno fatto ritardare quant’è bastato per perdermi i No Ceremony///, band eletcro-indie di Manchester, di cui peraltro tutti i presenti mi hanno detto un gran bene. Peccato.

Neanche il tempo di rilassarsi con una birra dopo la corsa fino all’Alcatraz che le luci si iniziano ad abbassare. Si comincia.
Ancora stordito dalla fretta vengo subito rapito da un suono distorto e ipnotico che esce dalle casse: è “Prelude”, traccia strumentale d’apertura di Holy Fire che fa da preludio in tutti i sensi, infatti dopo pochissimo tempo il chitarrista Jimmy Smith irrompe sul palco capeggiando il resto dei componenti.
Per ultimo Yannis Philippakis, cantante e leader della band, che scopriremo poi essere molto molto ispirato.

L’atmosfera è perfetta, il pubblico reagisce alla grande, i ragazzi di Oxford sono dannatamente carichi e l’amore è nell’aria.
Cosa si può desiderare di più.
La scaletta è un mix perfetto di perle recenti e più datate, tutte miscelate con maestria pescando da tutti e tre gli album.
“Miami”, “Olympic Airways”, “Blue Blood”, l’hit mondiale “My Number”.
Poi arriva il momento di “Spanish Sahara”, pezzo lento ed incredibilmente toccante da “Total Life Forever”, loro secondo album.
L’emozione è forte, il pubblico si zittisce inizialmente per poi iniziare a cantare la canzone in coro con Yannis, gli assoli distorti di chitarra si prolungano magnificamente per un tempo infinito, momenti bellissimi che gli stessi Foals hanno apprezzato ringraziando più volte i presenti e sottolineando la loro soddisfazione lasciandosi anche scappare un “forse dovremmo passare in Italia più spesso”. Eh Yannis. Anche si.

Ma si continua.
Yannis sembra indiavolato, si lancia sul pubblico a più riprese, improvvisa passeggiate fuori dal palco, si concede volentieri a tutti, soprattutto alle ragazze innamorate, e c’è da dire che nonostante la sua statura abbastanza ridotta possiede un ego da gigante. Bravo, completo.
In uno dei suoi giretti si avvicina anche al sottoscritto facendosi abbracciare. E così regala un sorriso ad un bimbo.
I pezzi continuavo a susseguirsi fino ad arrivare all’incredibile “Late Night” e a “Electric Bloom”, dal primo cd “Antidotes”, uno dei miei pezzi preferiti. E qui ho davvero la pelle d’oca.

Dopo la pausa ritornano sul palco carichi come prima, radono al suolo l’Alcatraz con “Inhaler”, si lasciano scappare un “questa sera ci avete fatto battere il cuore” (anche voi ragazzi. ANCHE VOI.) e poi chiudono il tutto con una versione estesa della monumentale “Two steps, twice” e tutti capiamo che, ahinoi, si è giunti alla fine.
Quasi due ore di concerto, un’energia pazzesca, una carica strepitosa, una performance che nessuno di noi dimenticherà.
C’è poco altro da dire: uno dei concerti dell’anno, un live TOTALE.
Foals…grazie.

Rock en Seine 2013 festival report

live - Rock en SeineMettendo insieme gli abitanti del comune di Pordenone con quelli di Gorizia non si raggiungono nemmeno le 78mila anime. Dal 23 al 25 agosto, in circa un kilometro quadrato, il festival Rock en Seine ha radunato nella periferia di Parigi 118mila persone. Nonostante ciò, è ancora nella categoria dei piccoli festival musicali europei, perché mentre in Italia ormai è diventato un sogno chiamare a raccolta le decine, in paesi come Ungheria e Belgio si parla di centinaia di migliaia di persone che si muovono, comprano e spendono soldi ed energie in territori che ormai possono sostenersi principalmente con queste attività.

Il Rock en Seine rimane una certezza per chi vuole godersi un festival ma allo stesso tempo farsi una bella vacanza, situato in uno dei parchi più grandi e belli d’Europa (il festival si svolge solo in una ben piccola parte di esso) è inoltre alle porte di Parigi, della quale si può facilmente raggiungere il cuore con la linea 10 della metro che al capolinea Boulogne Pont de St-Cloud ti fa immergere in un mondo spettacolare, quasi magico, fatto di palchi (4), giostre, musica e colori. Quest’anno la zona camping è stata spostata un po’ più distante rispetto alla zona concerti, ma nonostante la fatica della strada (in una salita ripida come poche tra l’altro) rendesse tutti sempre nervosi, all’arrivo si faceva davvero fatica a non rimanere incantati dalla visuale che quella collina donava su Parigi. Forse uno dei punti più incantevoli di tutta la capitale, che con quella salita sembrava quasi di conquistarla. Raggiunto quel punto panoramico del campeggio quasi veniva voglia di non lasciarlo mai, ma quando la musica iniziava a pulsare da sotto la collina e la ruota panoramica roteava i suoi seggiolini, il richiamo era davvero irresistibile.

Allora sotto il primo giorno con Belle And Sebastian, Tame Impala, Alt-J, Johnny Marr, Franz Ferdinand e altri gruppi che fondamentalmente non esistono (avete mai avuto questa impressione quando leggete i nomi delle band più in piccolo del copyright della stamperia nei manifesti dei festival?). Oltre a questi gruppi, che ribadisco essere inesistenti, Rock en Seine propone anche diversi progetti paralleli, solisti, alternativi, elettronici, hip-hop, collaudatisti, metal-meccanici di amici degli amici che hanno fatto parte dei Klaxons o simili. Nel festival ci sono stand ed intrattenimenti di ogni tipo, che vengono sfruttati soprattutto nei momenti un po’ più deboli della line-up.

La sera del primo giorno c’è da scegliere tra i suoni elettronici dal vivo dei !!! (Chk Chk Chk) o la club house berlinese spinta in consolle da Paul Kalkbrenner. Stranamente il pomeriggio del giorno dopo suona anche un certo Fritz Kalkbrenner, che è il classico fratello minore bravo ma sfortunato nell’avere davanti a lui uno dei più grandi clubber di tutti i tempi. La serata finisce e chi ha il pass per il campeggio deve rifare LA salita, solo i migliori ce la fanno, superstiti con grande forza di volontà. Alcuni alzano bandiera bianca e si fermano e metà strada lasciando le tende a solo scopo refrigerativo per le bottiglie che avrebbero usato il giorno dopo.

Il secondo giorno è forse quello un po’ più debole, ma non mancano le sorprese, vedi Waves, che con la loro King of the Beach cercano di boicottare la classica pioggia da festival che partita dalla sera tardi del primo giorno non darà quasi mai tregua per le successive 24 ore. E allora gli stand iniziano a regalare non più occhiali da sole ma impermeabili e mezzi di sopravvivenza da campeggio, mentre lo staff ricopre di ghiaia le pozzanghere dove potevano ormai completamente immergersi i bambini del Mini Rock en Seine (zona attrezzata all’interno del festival per piccoli rockers dai 6 ai 10 anni). Black Rebel Motorcycle Club, Nine Inch Nails ma soprattutto Phoenix, questo è stato il secondo giorno – ma la giornata indie non era la prima? – Evidentemente il Rock en Seine come tanti altri festival fa il furbo mescolando i generi tra le varie giornate, costringendoti così a scervellarti per capire se conviene prendere un  biglietto giornaliero o fare “la tre giorni”, ma con questa tecnica devo dire che vincono quasi sempre loro. Anche nell’ultimo giorno di programmazione non mancano gruppi interessanti, ma personalmente guardo tutto un po’ distrattamente perché attendo con la giusta ansia di vedere il live dei Bloody Beetroots per potermi sentire nel mio piccolo orgoglioso sapere dove sia Bassano del Grappa. Per chi non lo sapesse i loro live sono tra i concerti più hardcore a cui potrete assistere ed è imbarazzante la differenza tra quello che si pensa riguardo a loro e la realtà. A questo punto la schiena mi ha ufficialmente salutato e decido di sentire i System Of A Down dalla salita che mi porta al campeggio, dove ogni sera viene organizzato un after bello sostanzioso.

Tirando le somme il Rock en Seine ha un’organizzazione sempre più invidiabile, i servizi sono ottimi, dai bagni al cibo e così via, ma quest’anno il campeggio è stato davvero snervante, quasi a suggerire che l’organizzazione fosse gestita da persone completamente diverse. Basti pensare che in genere nei campeggi dei festival vige la regola del chi prima arriva meglio alloggia, o per lo meno la legge della giungla o del più forte o insomma, gli spazi migliori sono per chi si organizza meglio e/o arriva presto. Quest’anno invece bisognava seguire gli ordini dello staff e hanno iniziato a riempire prima gli spazi tenda più lontani per poi avvicinarsi alle docce e al festival. Praticamente chi è arrivato per ultimo ha avuto la meglio. Lascio il festival con numero: -1 paio di scarpe (il fango ha avuto la meglio), +2 poncio-sacchetti dell’immondizia impermeabili, +2 cappelli di paglia della Lipton e soprattutto -2 ginocchia (con loro mi rivedrò tra un paio di settimane).

Corny-jr
twitter.com/corny_jr

Elio e le Storie Tese – Live @ Grado (UD)

Elio e le Storie TeseOttima performance, come sempre, da parte di Elio e Le Storie Tese che hanno saputo intrattenere la spiaggia di Grado con la verve e con lo humor che li contraddistinguono ormai da 30 anni.
Un ingresso sul palco che lascia poco spazio ai convenevoli e parte a mille all’ora con un’improvvisazione progressive strumentale alla stregua degli AREA, gruppo che viene omaggiato sia durante il concerto che nell’ultima produzione in studio degli EELST.
Senza troppe pause si passa ad una carrellata dei brani più incisivi dell’Album Biango, al quale la band dedica praticamente la prima metà del concerto, mentre la seconda parte è costituita dai successi più classici del gruppo: “Servi Della Gleba”, “Supergiovane”, “Il Rock and Roll”, “T.V.U.M.D.B.” e molte altre.
Dopo circa 1 ora e tre quarti di concerto, arriviamo alla parte finale dello spettacolo con i brani El Pube e La Discomusic che fanno ballare tutto il pubblico sulla torrida spiaggia di Grado, che pare avere tutt’altra idea che lasciar andar via la band, alzando il solito coro di richiamo: “forza panino”.
Dopo circa 5 minuti di coro incessante, i nostri risalgono sul palco per concludere il concerto con uno dei loro brani più riusciti ed apprezzati: “Tapparella”; che lascia spazio anche per il consueto omaggio al mai dimenticato Feiez.

Concerto intenso, performance esilaranti oltre che impeccabili.
Voto: 9

Scaletta:
1.Introduzione Musicale
2. Servi della Gleba
3. Dannati Forever
4. La Canzone Mononota
5. Lampo
6. Il Tutor di Nerone
7. Il Ritmo Della Sala Prove
8. L’essenziale
9. Io per Lei
10. T.V.U.M.D.B.
11. Come gli Area
12. Supergiovane
13. El Pube
14. Discomusic
15. Complesso del Primo Maggio
16. Parco Sempione
17. Born To Be Abramo

Bis:
18. Tapparella

Deep Purple Live Majano 24/07/13

DEEP PURPLEL’età media non era di certo quella di un concerto di qualche giovane artista mainstream, anzi, c’è chi ha esibito maglie dei Purple di qualche improbabile live degli anni ’80.

Il terreno del campo di Majano è pronto ad accogliere migliaia di fan dell’ Hard Rock fatto come dio comanda, e il duro compito di aprire le danze, spetta ai vincitori del concorso indetto da Virgin Radio, i the Panicles, power trio che propone un rock moderno, influenzato da band come gli Arctic Monkeys o i The Killers che piace al pubblico che partecipa spontaneamente all’esibizione.

Passata la mezz’ora di gloria per la band emergente, la tensione tra i presenti sale, e finalmente alle 21 e 45 si ode un’entro in perfetto stile 2001 odissea nello spazio di Kubrick; all’improvviso il famoso rumore di accensione del flipper ed ecco che i Deep Purple fanno il loro ingresso con Fireball e subito il pubblico si scatena.

La band nonostante gli acciacchi dovuti all’età dimostra un affiatamento incredibile e una capacità di intrattenere il pubblico che non sempre band così longeve (46 anni dalla prima release “Shades Of Deep Purple”) riescono a dimostrare.

I pezzi si susseguono senza troppe parole e la gente apprezza ballando e rockeggiando seguendo il ritmo del 68enne frontman Ian Gillan, che molto spesso accenna i suoi famosi acuti.

A metà concerto arriva il turno di The Mule, traccia creata per l’assolo di batteria di Ian Paice, in cui da spettacolo al buio con dei led luminosi inseriti nelle bacchette.

In questo concerto presentano il nuovo album “Now What?” 19esimo in studio, un buon mix di vecchio sound color porpora con una buona resa live.

I classici della band non si fanno attendere, e il pubblico esplode in un boato alle note di Lazy, pezzo rock ‘n’ roll/blues facente parte del loro masterpiece “Machine Head” del 1972. Steve Morse, ormai da 19 anni nei Deep Purple non manca di far divertire il pubblico, è l’orsa del suo assolo, e tra una nota e l’altra ecco l’intro più conosciuto della storia del rock, “Smoke On The Water” che fa danzare vecchi e piccini in un tripudio di note ed assoli, la band saluta tutti e lascia il palco.

Dopo i soliti cori all’italiana, la band si ripresenta dopo un’infinita attesa di quasi 10 minuti sul palco friulano, e ci regala una versione della nota Green Onions nella quale Don Airey all’Hammond regala anche accenni a canzoni classiche come la “Marcia Turca” o il “Nessun Dorma”;

poi un ritorno al loro primo singolo, nonché cover di Billie Joe Royal targato 1968, Hush, un funky rock pieno di cori e ritmo.

Dopo un breve assolo del mai stanco Roger Glover al Basso, la band propone un altro classico dell’altro immancabile album in ogni bacheca che si rispetti di un ascoltatore del rock,  “Black Night” del full lenght “In Rock” in cui nella copertina si vedono i volti dei membri della band scolpiti nel monte Rushmore, al posto di quelle dei presidenti americani.

La serata si conclude dopo 1 ora e 50 minuti di puro Hard Rock, inutile dire che nessuno ci sperava in un concerto così lungo, ma ben costruito, atto ad evitare di sforzare troppo la voce di Gillan, i “nostri” mandano a casa i presenti con un sorriso e tanti ricordi nella mente.

 

VOTO: 9

 

Scaletta:

1. Fireball

2. Into The Fire

3. Hard Lovin’ Man

4. Vincent Price

5. Strange Kind Of Woman

6. Contact Lost

7. Guitar solo

8. All The Time In The World

9. The Well Dressed Guitar

10. The Mule (Drum Solo)

11. Hell To Pay

12. Lazy

13. Above And Beyond

14. No One Came

15. Keyboard Solo

16. Perfect Strangers

17. Space Truckin’

18. Smoke On The Water

 

Bis

19. Green Onions

20. Hush

21. Bass Solo

22.Black Night

Slayer – Live 15 Giugno Padova

SlayerDopo quasi due anni di assenza dai palchi italiani, dall’ultimo 7 luglio 2011 al big4 a Rho (MI), i thrasher di Los Angeles presentano la nuova formazione al pubblico italiano.
Orfani del mentore del gruppo Jeff Hanneman, chitarrista e fondatore della storica band, defunto il 3 maggio scorso per un’insufficenza epatica, dopo che per 2 anni a causa di una fascite necrotizzante, era stato costretto a interrompere l’attività live, sostituito dal funambolico Gary Holt degli Exodus.
Poche settimane fa, un’altra notizia triste per tutti i fan più ossessionati della band (tipo me), lo storico batterista Dave Lombardo, lascia in via definitiva gli Slayer per disaccordi con la band, un addio non molto amichevole a quanto pare.
Tutto ciò ne ha risentito molto sull’umore della band, che ha riassoldato Paul Bostaph, già batterista dal 1992 al 2001, e anche sull’assenza dei fan, accorsi non di certo in massa per un gruppo che ogni volta che torna in italia, riempie teatri, palazzetti e arene.

Il pre-concerto è un classico, chioschi pieni, birra a fiumi, rock ‘n’ roll che intrattiene i metalhead giunti da tutto il nord italia, con eccezione degli onnipresenti sardi che giungono accompagnati dalla loro bandiera.
Non ci sono band di spalla e alle 21:18 si ode l’intro di “World Painted Blood”, e il 90% della gente, spiazzata, comincia a correre verso la platea per assistere all’inizio del concerto.
La band da subito appare poco amalgamata, la batteria da sempre l’idea di dover rincorrere gli altri strumenti per stare al passo e i colpi non sono sempre precisi come siamo abituati a sentire.
La scaletta è stata modificata, prediligendo alcune canzoni dell’era Bostaph, la reazione del pubblico non è sempre molto viva, e questo influisce sulla prestazione della band, senza mai omettere però dei classici senza tempo, che fanno tremare il terreno del teatro padovano.
Ciò che influisce più di tutto, è il sound del teatro Geox, una cosa a dir poco vergognosa, le chitarre non mixate si sentivano a destra per chi suonava a destra e idem per chi stava a sinistra, la voce era pressochè incomprensibile, le basse frequenze disturbavano i cuori più deboli, insomma un totale fallimento.
Nonostante tutto, il tatuatissimo chitarrista Kerry King sembra in forma più del solito invece, gli assoli son precisi, fa urlare la chitarra come non mai, e al pomeriggio ha pure concesso una signing session presso un noto negozio di strumenti del Trevigiano.
I pezzi si susseguono senza molti siparietti, fino al momento in cui per gli ultimi due pezzi, viene rimosso il telone con il logo del gruppo, e ne viene esibito uno in memoria di Hanneman, e la sua chitarra viene messa sul palco a far compagnia ai suoi vecchi compari.
Il concerto finisce senza molte parole, un timido “Mille Grazie” del barbuto frontman Tom Araya e la band saluta e si congeda senza troppi complimenti.
Purtroppo il  fardello del nome Slayer sta cominciando a pesare molto; sperando in tempi migliori, ai nostri, diamo un 6,5 politico.

VOTO: 6,5

Scaletta:

  1. Encore: