Live – Queens of the Stone Age @ Križanke Ljubljana

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Tutti noi abbiamo un Olimpo dove poniamo le personalità che ci hanno ispirati nel corso della vita.

Nel mio personale Olimpo si trova, assieme a molti altri musicisti, anche Josh Homme.

Josh Homme è stato uno dei fondatori del gruppo stoner dei Kyuss, esperienza fortunata che si può dire ha dato vita a un genere, ed è successivamente divenuto leader nonchè icona dei Queens of the Stone Age, dei quali è anche l’unico componente fondatore a fare ancora parte.
Ha fondato inoltre insieme a Dave Grohl (anche lui ex QOTSA) e John Paul Jones il supergruppo Them Crooked Vultures e produce e pubblica periodicamente una serie di improvvisazioni musicali con altri musicisti, chiamate “The Desert Sessions”.

Ci siamo capiti insomma.

Lunedì 9 giugno alla Križanke Arena di Ljubljana ho potuto finalmente assistere ad un live degli amati Queens of the Stone Age, usciti l’anno scorso con il loro sesto lavoro “…Like Clockwork”.

Caldo tropicale e afoso, arena (splendida) SOLD OUT e decibel altissimi.
Questo è un concerto rock.

Entro nella splendida cornice della Križanke in concomitanza con l’inizio del concerto (non me ne voglia il gruppo spalla sloveno che apriva), trovo un posticino comodo e dalla buona visuale e possiamo iniziare.

Josh Homme, che trovo più in forma ed asciutto del solito, ha già iniziato a far urlare la Gibson Marauder ed è carico come del resto tutta la band: i QOTSA ci regalano uno spettacolo granitico, senza sbavature né un attimo di tregua.
I brani che t’aspetti ci sono praticamente tutti, da “Little Sister” a “No One Knows”, da “Go With the Flow” a “Sick Sick sick”, Josh non tira mai il fiato e con lui tutti gli spettatori: i cinque sul palco sono tecnicamente impeccabili e dimostrano perché faranno da headliner in buona parte dei maggiori festival estivi europei.

Il concerto prosegue incessante ripercorrendo tutta la storia dei QOTSA passando per “Songs for the Deaf”, “Lullabies to Paralyze”, “Era Vulgaris” e il più recente “…Like Clockwork” dove ritroviamo sonorità meno estreme e che a tratti possono ricordare persino Bowie o i Talking Heads.

La chiusura lascia tutti appagati grazie all’energica “A song for the dead”, la sigla finale di sempre, capace di prosciugare ogni energia residua nel pogo scatenato, che fa calare il sipario sulla Križanke Arena e su una performance da 10.
Bravo Josh.

Live – God is an Astronaut @ Kino Šiška Ljubljana

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Dio è un astronauta.
Non so se sia vero, ma quello che so è che ieri nello spazio ci sono stato davvero.

Martedì 8 aprile il Kino Šiška Centre for Urban Culture di Lubiana si è tinto di Irlanda, diventando perfetta cattedrale per il sound solenne, potente, ma al contempo intimo ed introspettivo dei ‪God is an Astronaut‬.
La band delle contea di Wicklow, alla sua terza apparizione nella capitale slovena, ha sfoderato un’esibizione fuori dal comune, lasciandomi personalmente esterrefatto quanto affascinato.

L’intero concerto è stato un climax sonoro ed emotivo che la band ha sapientemente orchestrato spaziando in un turbinio di sensazioni contrastanti e pescando in tutto il suo repertorio, dal primissimo “The End of the Beginning” del 2002 fino al più recente “Origins” del 2013.
Forever Lost, Fragile, Echoes, Twilight: nessun pezzo storico è stato dimenticato, anzi l’enfasi era ancora maggiore, come il continuo e sempre crescente coinvolgimento del pubblico.
Un post-rock di qualità ed estrema tecnica, una perfezione sonora che non può lasciare indifferente nemmeno l’ascoltatore meno esperto.
Il mio apice personale è stato raggiunto con “All is Violent, All is bright” durante il quale ero letteralmente su un altro pianeta: gli occhi rapiti dalla chitarra di Torsten, il cuore impazzito in un orgasmo perenne, mentre lo spirito vagava leggero nell’iperuranio

La percezione del tempo si è persa tra le note, in un’atmosfera eterea e perfetta, e le quasi due ore di concerto si sono esaurite in una nuvola di emozioni, mentre noi eravamo lì, in pace, appagati, stregati.
E volavamo e fluttuavamo.
Perchè si, forse Dio è davvero un astronauta.

Recensioni – Bombay Bicycle Club, “So Long, See You Tomorrow”

BBCTornati.

Dal 2009 al 2011 un disco all’anno, ora tre anni per concepire il nuovo “So Long, See You Tomorrow”.
Poco male, l’importante è come sempre il risultato finale.

Sto parlando dei Bombay Bicycle Club, gruppo indie rock londinese attivo dal 2005, che proprio ieri è uscito con il suo nuovo lavoro.

 

Smaniavo dalla voglia di piazzarmi sulla poltrona e ascoltarmelo in santa pace, esattamente dalla fine del 2013, uscita di “Carry Me”, singolo anteprima che annunciava la lieta novella. E ieri finalmente ci sono riuscito.

I periodi di transizione per i musicisti, si sa, variano molto a seconda delle correnti artistiche, dell’entusiasmo, del seguito, ma i BBC hanno sempre avuto uno stuolo di seguaci niente male, quindi ero sicuro fosse solo una questione di tempo ed ero sicuro che il nuovo lavoro non avrebbe deluso le fortissime aspettative che nutrivo.

Il gruppo sicuramente non è affatto male, anzi, personalmente è uno dei miei preferiti, e il loro mix di suoni folk, indie, danzerecci, elettronici è un toccasana per le orecchie, con la voce di Jack Steadman che scalda il cuore.
Le prima quattro tracce del disco hanno una storia propria, sono meravigliosamente complete, con “Overdone” che apre le danze in maniera solenne e potente, seguita dagli elementi dub e dai contrattempi di “Carry Me”.

Arriva poi il turno di “Luna”, altro singolo che anticipava il lavoro, in cui la voce suadente di Steadman si intreccia con le campionature, con i cori e un’altra voce femminile, in un mix etereo perfetto, un brano sognante e delicato.
“Feel” invece è a parer mio il miglior pezzo dell’album, un brano a dir poco particolare, in cui si fondono flauti arabeggianti, trombe messicane, un synth ripetitivo e un testo da pelle d’oca. Squisita. Perfetta.

Si chiude il tutto con “So Long, See You Tomorrow” che da il nome al disco, un “ci vediamo domani”, un saluto ironico vero e proprio, per terminare l’album e far capire che non passeranno altri tre anni prima di un altro meraviglioso lavoro.
Bravi ragazzi.

Bombay Bicycle Club, “So Long, See You Tomorrow”, 2014, Island Records

BBC tomoeeow

 

14.02.14 THE FUNERAL SUITS + #WAT PARTY w/RUCKUS CREW ∆ @ APARTAMENTO HOFFMAN

FUNERALSan Valentino all’insegna della grande musica quest’anno all’Appartamento Hoffman.

Venerdì 14 febbraio infatti sul palco del carinissimo locale di Conegliano si esibiranno i The Funeral Suits, gruppo indie rock irlandese formatosi nel 2009 e che dal 2012, anno di uscita di “Lily of the Vally”, loro prima fatica discografica, non si è più fermato.
La loro è una melodiosa unione di elettronica ed indie rock, caratterizzata da suoni malinconici, ma al tempo stesso molto potenti.

A seguire l’Appartamento Hoffman inaugurerà la nuova serata #WAT, musica indipendente da ballare for free, ingresso gratuito e pezzi ricercati che metteranno a dura prova le rotule di tutti i presenti.
Al #WAT opening party il djset sarà affidato a J. Hoffman, padrone di casa e a quei tre scapestrati della Ruckus Crew ∆ : la buona musica è assicurata.
E’ attesa una grande partecipazione del movimento indie & hipster della zona e non solo.

Per info e news:
https://www.facebook.com/events/1459295047616990/?fref=ts

http://www.youtube.com/watch?v=5j4l_NdkYMQ

Live – Albert Hammond Jr. @ Covo Club Bologna

aj2 Sabato 14 dicembre me la sono spassata al Covo, club underground di Bologna, nonché uno dei locali italiani che preferisco in assoluto.

E sul palco c’era Albert Hammond Jr., mica uno qualsiasi.
Già.
Albert Hammond Jr. ovvero il figlio di Albert Hammond, cantautore inglese anni ’60 di discreto successo (sua la nota “It never rains in southern California”, ndr), ma soprattutto chitarrista dei The Strokes assieme al talentuoso Nick Valensi.
Albert dei due, benché sia comunque un chitarrista coi fiocchi, non è di certo il più dotato tecnicamente, ma invece ha avuto delle gran belle intuizioni come solista, rilasciando due album e un EP, “AHJ”, uscito l’8 ottobre di quest’anno.
Chiariamo: a parer mio il genere, i suoni, alcuni riff ricordano quelli ideati dal frontman/genio dei The Strokes Julian Casablancas, ma nonostante questo denotano una maggior dolcezza, anche nei testi, e questo mi piace molto.
Albert insomma è un ragazzo che apprezzo davvero tanto e ciò, unito alla mia assoluta venerazione nei confronti dei The Strokes, mi imponeva di presenziare alla terza data del suo minitour italiano che si svolgeva nella capitale felsinea.

Il concerto inizia intorno alle 23, in un Covo strapieno, con un clima caraibico e un’inaspettata terza fila nonostante fossi arrivato in ritardo (così, tanto per cambiare).
Sul palco, oltre a Hammond con la sua fedele Stratocaster bianca, ci sono altri due chitarristi, un basso e una batteria confinata nelle retrovie: d’altronde lo spazio del palco del Covo è quello che è, si sa.
Mi colpiscono subito le tre chitarre: che potenza di fuoco! Ci piace!
Si inizia alla grande con due dei miei pezzi preferiti, “Everyone gets a Star” e “Scared”, direttamente dal primo album solista “Yours to Keep” per poi proseguire con roba nuova nuova come la bellissima “St. Justice” dell’ultimo EP, “AHJ” appunto, e con altre chicche come ad esempio “GfC”, dal secondo “‪¿‬Còmo te LLama‪?‬” del 2008.

E’ un incalzare di riff di chitarra straordinari, con musicisti, specialmente i chitarristi, che si esibiscono in finissimi virtuosismi e con un pubblico che si dimostra sempre caldo e coinvolto.
Albert è in gran forma e molto ispirato: i problemi (innumerevoli) con le droghe sono ormai cosa passata, e scusate se non è così scontato da parte di uno che si iniettava mix di eroina, cocaina e ketamina fino a 20 volte al giorno e che ha vissuto un periodo discretamente lungo vagabondando da una clinica all’altra (lo ammette molto candidamente e, oramai, con una certa consapevolezza lui stesso nelle interviste, altrimenti non vi riferirei mai nulla del genere su nessuno, figuratevi se su uno degli Strokes, ndr).
Lui, in barba alle malelingue, è lucido e indiavolato con la sua Stratocaster in mano, il gruppo risponde altrettanto bene e il culmine del godimento (per me soprattutto) arriva con “101”, sempre da “Yours to Keep”, pezzo semplicemente straordinario e che per me vale da solo l’intero prezzo del biglietto.

Un’ora e mezza di puro godimento, di musica di altissimo livello, di botta e risposta scherzosi con il pubblico, per poi salutare teneramente e abbandonare il palco scortato dai bodyguard in mezzo alle persone adoranti, conscio di aver regalato tanta emozione, soprattutto a me.
Questo è stato sabato 14 dicembre al Covo Club di Bologna.
Questo è stato Albert Hammond Jr.

Live – The Lumineers @ Estragon Bologna

lllMartedì 3 Dicembre 2013 mi sono ritrovato, quasi inaspettatamente, all’Estragon di Bologna per l’unica data italiana dei Lumineers, band folk rock statunitense.

La decisione di presenziare è stata presa un paio di giorni prima e mi presentavo un po’ alla sbaraglio dato che a parte la celeberrima “Ho Hey” non avevo la minima idea di cosa potesse proporre il trio statunitense.

Arrivo sul posto verso le 21, la serata bolognese è dannatamente fredda, niente vento che ti lacera la pelle come ormai è abitudine nella mia bella Trieste, ma un freddo infido, che ti penetra nelle ossa e che trasforma i miei mocassini hipster in due blocchi di ghiaccio.
Ghiaccio sempre molto hipster ovviamente.

Finalmente si entra all’Estragon: la temperatura torna decente, complice anche il numero dei presenti (concerto SOLD OUT da tempo) e si respira già una bella atmosfera.
Sul palco infatti si stanno già esibendo Thao & The Get Down Stay Down, band alternative rock molto energica e divertente guidata dall’asiatica Thao, uno scricciolo di ragazza che però sa il fatto suo e passa con disinvoltura dalla chitarra al banjo, dalla slide-guitar all’ukulele. E ovviamente canta.
Divertente è la parola giusta perché la musica non è troppo impegnata, ma decisamente coinvolgente ed orecchiabile: mix perfetto per un gruppo spalla. Thao poi è letteralmente scatenata, strappa applausi continui e all’ultimo pezzo viene raggiunta dai Lumineers per una bella cantata in allegria tutti assieme. Una bella esperienza sia per loro che per il pubblico.

Poi arriva il momento dei protagonisti: The Lumeneers.

Vengono accolti con un boato e una partecipazione che, dall’alto della mia ignoranza, non mi aspettavo, ma capisco subito il motivo.
Il trasporto, le melodie, la calda sonorità folk sprigionata sul palco sono davvero impressionanti e il fascino del violoncello, di un vecchio pianoforte stile “saloon” e della vecchia country guitar si fanno sentire, soprattutto su un romantico come il sottoscritto.

L’amalgama del gruppo è perfetta, le voci giocano e si incastrano, Wesley Schultz dirige il tutto con maestria e l’incalzare di ballate folk come “Submarines”, “Stubborn Love” o “Flowers in Your Hair” rende il tutto magico e molto retro. Giurerei di aver visto più di qualcuno accendersi la pipa.

Ad un tratto Wesley e soci fanno cenno al pubblico di aprire un varco, cosa che incredibilmente va in porto nel giro di pochi secondi e senza conseguenze tragiche “all’italiana”, e si calano dal palco passando tra la gente pronti ad eseguire un paio di pezzi in acustico circondati da migliaia di occhi adoranti. Tutto molto bello.
Da sottolineare anche come i ragazzi di Denver abbiamo più volte pregato il pubblico di non perdersi il concerto a causa dei loro cellulari e tablet, cancro del nostro tempo, di non distrarsi con video e foto, ma anzi di apprezzare il calore della situazione, di vivere il momento: “Please put down tour peones and sing with us, we are here for you”. Bravi ragazzi.
C’è ancora il tempo per un paio di pezzi nuovi che anticipano evidentemente un prossimo cd e poi si chiude in bellezza con una versione davvero lunga e sontuosa di “Big Parade” e tutti, me compreso, ci ritroviamo quasi inconsciamente a cantare e ballare e cantare e ballare e bere una birretta e ballare.

Si conclude così il concerto più inaspettato del 2013, la sorpresa, la rivelazione, la performance maiuscola dei Lumineers che mi ha fatto trascorrere in maniera ancora più piacevole questa piccola trasferta bolognese.
Cheers.

Live – Foals @ Alcatraz Milano

FFF Finalmente.
Finalmente è successo.
Finalmente i Foals a Milano.

Dopo mesi di attesa spasmodica, in particolare mia, giovedì 24 ottobre i Foals si sono esibiti all’Alcatraz per l’unica data italiana del loro Holy Fire Tour. Inutile dire che le aspettative da parte di tutti erano enormi…e non sono state deluse.
Ma procediamo per gradi.
Milano è sempre Milano, il dannato traffico è sempre in agguato, e nonostante mi sia preso in tempo vari contrattempi mi hanno fatto arrivare all’ultimo, o meglio, non all’ultimo, ma mi hanno fatto ritardare quant’è bastato per perdermi i No Ceremony///, band eletcro-indie di Manchester, di cui peraltro tutti i presenti mi hanno detto un gran bene. Peccato.

Neanche il tempo di rilassarsi con una birra dopo la corsa fino all’Alcatraz che le luci si iniziano ad abbassare. Si comincia.
Ancora stordito dalla fretta vengo subito rapito da un suono distorto e ipnotico che esce dalle casse: è “Prelude”, traccia strumentale d’apertura di Holy Fire che fa da preludio in tutti i sensi, infatti dopo pochissimo tempo il chitarrista Jimmy Smith irrompe sul palco capeggiando il resto dei componenti.
Per ultimo Yannis Philippakis, cantante e leader della band, che scopriremo poi essere molto molto ispirato.

L’atmosfera è perfetta, il pubblico reagisce alla grande, i ragazzi di Oxford sono dannatamente carichi e l’amore è nell’aria.
Cosa si può desiderare di più.
La scaletta è un mix perfetto di perle recenti e più datate, tutte miscelate con maestria pescando da tutti e tre gli album.
“Miami”, “Olympic Airways”, “Blue Blood”, l’hit mondiale “My Number”.
Poi arriva il momento di “Spanish Sahara”, pezzo lento ed incredibilmente toccante da “Total Life Forever”, loro secondo album.
L’emozione è forte, il pubblico si zittisce inizialmente per poi iniziare a cantare la canzone in coro con Yannis, gli assoli distorti di chitarra si prolungano magnificamente per un tempo infinito, momenti bellissimi che gli stessi Foals hanno apprezzato ringraziando più volte i presenti e sottolineando la loro soddisfazione lasciandosi anche scappare un “forse dovremmo passare in Italia più spesso”. Eh Yannis. Anche si.

Ma si continua.
Yannis sembra indiavolato, si lancia sul pubblico a più riprese, improvvisa passeggiate fuori dal palco, si concede volentieri a tutti, soprattutto alle ragazze innamorate, e c’è da dire che nonostante la sua statura abbastanza ridotta possiede un ego da gigante. Bravo, completo.
In uno dei suoi giretti si avvicina anche al sottoscritto facendosi abbracciare. E così regala un sorriso ad un bimbo.
I pezzi continuavo a susseguirsi fino ad arrivare all’incredibile “Late Night” e a “Electric Bloom”, dal primo cd “Antidotes”, uno dei miei pezzi preferiti. E qui ho davvero la pelle d’oca.

Dopo la pausa ritornano sul palco carichi come prima, radono al suolo l’Alcatraz con “Inhaler”, si lasciano scappare un “questa sera ci avete fatto battere il cuore” (anche voi ragazzi. ANCHE VOI.) e poi chiudono il tutto con una versione estesa della monumentale “Two steps, twice” e tutti capiamo che, ahinoi, si è giunti alla fine.
Quasi due ore di concerto, un’energia pazzesca, una carica strepitosa, una performance che nessuno di noi dimenticherà.
C’è poco altro da dire: uno dei concerti dell’anno, un live TOTALE.
Foals…grazie.

#avolteritornano – I Cani hanno ancora qualcosa da abbaiare

i-cani Dopo “Il sorprendente album d’esordio de I Cani” ed il successivo silenzio erano stati etichettati da molti come la classica meteora della musica italiana, successo effimero, mordi e fuggi, con la peculiarità che non erano usciti da uno dei tanti (troppi) talent show dello stivale, ma anzi si erano autoprodotti fuggendo e ripudiando le classiche sonorità che vanno per la maggiore nella nostra bella Italia. Apprezzabile. Molto.

D’altro canto Niccolò Contessa, mente e anima del gruppo, si era sempre distinto per un approccio quantomeno fuori dagli schemi. Memorabile la sua intervista al giornale L’Unità in cui dichiarava «Vediamo ogni giorno troppe band, troppi nomi, troppi servizi fotografici, troppe facce. Credo che il pubblico sia desensibilizzato all’immagine di band e alla rappresentazione classica di band, quindi conviene puntare su altro, ad esempio foto di cagnolini».
Dopo un paio d’anni di silenzio intervallati da qualche cover (Con un Deca-883) ieri, durante il concerto degli Editors a Milano è iniziato a girare qualche volantino che suggeriva di fare un giro nel web…e oggi cosa troviamo? Nuovo singolo per Niccolò e friends.

“Non c’è niente di twee”, pezzo alquanto basico, come nella loro tradizione, ma che al primo ascolto prende e fondamentalmente piace, testi diretti e mai banali e l’etichetta di band alternativa ben cucita sul giubbotto non li abbandona.
E questo aiuta.

Aspettando il secondo album gustiamoci quindi questa anteprima.

http://www.youtube.com/watch?v=9L6GmHCWC4g

REFLEKTOR, il fenomeno Arcade Fire

REF

E venne il giorno.
Il 9/9 alle ore 9(pm) si saprà la verità, tutta la verità, sul nuovo e tanto atteso lavoro della band di Montréal.
Da tempo oramai si susseguono le voci a proposito del nuovo LP degli Arcade Fire, band simbolo della scena indie rock mondiale, e loro stessi hanno contribuito ad amplificare l’attesa in maniera intelligente ed oculata.

Da veri e propri “maestri dell’HYPE” quali sono in questi mesi hanno sapientemente centellinato e nascosto tutte le informazioni, lasciando filtrare solo quanto volevano far sapere e facendo ritrovare sparsi un po’ in tutto il mondo enigmatici segnali ed anticipazioni.
Inutile sottolineare lo snervante stress psicologico al quale sono stati sottoposti i fans (io in primis).
Ma oggi è il 9 settembre e finalmente questa barbarie finirà.
Nei giorni passati sono già filtrate parecchie indiscrezioni: un singolo poi tolto dalla circolazione, una copertina, un video, un album, delle collaborazioni eccellenti. Ma bisogna fidarsi?
Personalmente non mi stupirei se in realtà quanto è stato anticipato fosse solo uno specchio per le allodole, non mi stupirei proprio, anzi in un certo senso proprio me l’aspetto.
E allora che dire amici. Aspettiamo assieme le 9pm.
Manca un’ora.
Buon ascolto.