Society – John Mayer ovvero dell’essenzialità

48th Annual Academy Of Country Music Awards - ACM Fan JamÈ fin dall’inizio che mi sono auto-imposto di non propinare le mie opinabili opinioni musicali ai fini intenditori di The Great Complotto Radio: una regola di comportamento, se volete, di buone maniere, urbane e rispettose della brigata di amatori ed esperti di cui, con mio grande onore, entravo a far parte. No, non vi preoccupate, non ho intenzione di abbandonare il mio giusto proposito: avverto solo che se pur scriverò di musica e musicisti, lo farò da un punto di vista tutt’altro che tecnico.

Il protagonista di questo articoletto sarà il succitato John Mayer: cantante e chitarrista rock/pop americano semi-sconosciuto nei nostri confini. Il che è sorprendente, considerando l’enorme fama di cui il nostro gode in patria e non grazie alle sue pur notevoli qualità professionali (uh, mi è scappato un commento pseudo-tecnico…), bensì a causa di un suo lungo e assai contrastato rapporto con le riviste di gossip.

Il ragazzo ne ha combinata di ogni: ha avuto un nugolo di fidanzate di ogni genere (ma tutte illustri), fatto dichiarazioni di ogni tipo, combinando ca**ate di ogni sorta e, immancabilmente, si è fatto seppellire dalla marea di critiche da lui stesso pubblicamente provocate. Il che, a parte la censura finale, avrebbe pur dovuto attirare l’attenzione dei raffinati media italiani… boh.

Com’è o come non è, il giovinetto, dopo una delicata operazione alle corde vocali che ben simboleggia la necessità di una netta cesura esistenziale, ha pubblicato due album all’insegna anche di una evidente svolta musicale: entrambi fanno riferimento al Roots rock, ossia un riavvicinamento ad uno stile musicale considerato in qualche modo originario della cultura degli Stati Uniti, una miscela di suoni essenziali, folk, country e blues.

Il primo del 2011 era intitolato Born and Raised, mentre il secondo, uscito un paio di mesi fa, è intitolato Paradise Valley. È interessante notare come in entrambi il tentativo fin dai titoli scelti è quello di suggerire un ritorno all’origine (Born) percepita come essenziale, rappresentata, in uno stretto dialogo tra i due album, come pura e sacra (Paradise).

john-mayer-paradise-valleyL’intento è chiaro: il ragazzo è cambiato, ha compreso i propri errori, si è trasferito in Montana tra vacche e giumente, dove ha potuto riprendere contatto con la vera essenza del proprio Io e della musica, lontano dalle sirene della Babilonia oscura e tentatrice che in gioventù l’avevano fuorviato.
Guardatelo ad oggi sulla copertina di Paradise Valley stagliarsi su un grande cielo grigio e nuvoloso ormai alle spalle, con il suo cappellaccio a tesa larga da cui pare non separarsi mai, il suo poncho buttato sulle spalle, gli immancabili jeans e come unico compagno uno splendido cane nero che sbuca dall’erba alta, fissandolo.

A dirla tutta, la cosa che maggiormente mi colpisce in questa copertina è proprio il cagnone nero accovacciato nell’erba e il suo sguardo rivolto verso il nuovo John: non riesco a far a meno di pensare che sia uno sguardo in po’ stupito e un po’ perplesso, come se il cagnolone stesse pensando: “E questo che vuole?”.

La cosa più strana è che vedendolo mi è venuto in mente il Monsignor Giovanni Della Casa e la trattatistica comportamentale del Cinquecento italiano. Sì, insomma: quei libri che dicevano che in società è meglio comportarsi così piuttosto che colà, che è più elegante questo che quello, eccetera eccetera. Per chi non se lo ricordasse infatti Monsignore è l’autore di quel famosissimo libretto che tutti nominano, ma che nessuno legge mai, intitolato Galateo. Mi raccomando, non commettete il mio stesso errore di credere che si tratti di un semplice manuale di buone maniere: io il Galateo l’avevo comprato per sapere come mettere le posate a tavola, ma non c’è mica scritto! Fortuna ladra, non ho potuto nemmeno restituirlo e farmi dare i soldi indietro… Tanto valeva leggerlo e così almeno ho imparato un paio di cose interessanti.

548La prima è che Monsignore, proprio come il Giovanni Mayer, aveva trascorso una giovinezza turbolenta ad inseguir gonnelle e riposar nei letti (altrui) e solo in tarda età si era messo a dispensare consigli ai giovani: proprio grazie alla sua esperienza “sul campo” si poteva permettere di consigliare ai giovani di non vivere come bestie, dominati dagli istinti e dalle smodate voglie, piuttosto, per essere ben accetti nella società che conta, di tendere all’ideale di eleganza, compostezza e urbanità, che è la vera e alta essenza dell’uomo, uniformandosi lietamente alle usanze migliori del tempo. “Fatti non foste a viver come bruti…” e il non esser stato in gioventù più attento alle consuetudini morali e sociali era costato a Monsignore ben più che un cappellaccio sdrucito da cowboy (ma quello rosso da cardinale, per intenderci).

La seconda cosa che ho imparato è che Monsignore, proprio perché se l’era in verità spassata parecchio, si rendeva bene conto che conformarsi a quell’ideale di compostezza e moderazione comportava un certo sacrificio e che, in fondo in fondo c’era un desiderio di autenticità nel non voler essere ingabbiato nel conformismo sociale, manierato e falsetto, e nel preferire piuttosto scorrazzare libero nella boscaglia come un “cinghialo di furesta”.

Et voilà! Il dilemma è servito: meglio il cappellino o il cappellaccio? Ossia quel’è la vera essenza dell’uomo, dove sta la sua autenticità? Nella composta eleganza tesa al rispetto di sé stessi e dell’altro dell’urbanitas, o nella strafottente sincerità della rusticitas?
Ma come è possibile che nella stessa epoca, nella stessa cultura, nello stesso uomo addirittura, possano convivere due opposte autentiche essenze dell’uomo? Almeno una dev’essere falsa per forza!

Che poi, a pensarci bene, ne sono possibili delle altre: quella proposta da John Mayer (o chi per lui) ad esempio è un’autenticità mista, un’urbana rusticità, una roba simile ad un ritiro mistico e ascetico…

Ma si può sapere insomma quel è la vera natura dell’uomo? Io, nel dubbio, sarei propenso ritenere che siano piuttosto tutte false. Ecco il perché dello sguardo perplesso del cane nero: lui non ha bisogno di interrogarsi sulla sua essenza, su quale sia la sua natura autentica: semplicemente la vive. Ma nella naturale naturalità del cane, la figura dell’uomo John Mayer ha un che di profondamente estraneo e buffonesco.

Thomas Adorno ha scritto: «ciò che, nella civiltà, appare come natura, è, in realtà agli antipodi della natura: è la pura e semplice oggettivazione», che con parole mie tradurrei: non c’è niente di più falso dell’autentico. Ma non c’è pure niente di più vero. Questa della natura, dell’essenza e dell’autentico, non è che una delle tante favole che ci raccontiamo quando abbiamo bisogno di punti di riferimento saldi e sicuri nei rovesci della fortuna.
Ogni epoca, ogni cultura, forse anche ogni uomo si può costruire il suo ideale di autenticità, la sua essenza preferita, da mettere in una boccetta e spruzzare alla bisogna sull’umanità intera. Ed è un’essenza che purtroppo spesso puzza di fanatismo e razzismo.

E non è detto poi che questa questione porti ad esiti tanto odiosi e catastrofici; il rischio c’è, ma in questa sorta di ricerca dell’umano può pure saltar fuori qualcosa di positivo. Basta non crederci troppo, non prenderla troppo sul serio, via! E non restare male se nel fondo non si trova un bel nulla.

Ma come fai, direte voi, ad essere così convinto che non esista poi davvero un essenza più essenziale, un’autenticità più autentica delle altre? Semplice: ne ho la prova provata. Perché John Mayer, da vero filosofo del nostro tempo, nel suo buen retiro in Monatana non si è portato proprio solo vacche e giumente, ma pure Katy Perry.

Giuro.

 

http://www.youtube.com/watch?v=yxONFHw3CIs

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