Society – La stretta di mano del Dr. Schultz (2/2)

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«He stayin’ in the big house!?»
Stephen

 

Eravamo arrivati al punto di chiederci se nella perfetta struttura bipartita della sceneggiatura dell’ultimo film di Tarantino ci fosse qualche personaggio che, sfuggendo all’appiattimento fiabesco dei “buoni contro cattivi”, rivelasse una qualche maggiore complessità: un personaggio che permettesse alla narrazione di sfuggire alle sabbie mobili della semplificazione e della moralità manichea.

Io credevo di sì, che un personaggio di questo tipo ci fosse e che fosse molto importante.

E… sì, avete indovinato: stavo parlando del vecchio Stephen.

È facile notare come la stessa tematica razziale in un’ottica banalizzante favorisca in qualche modo la distinzione netta tra gruppi: il colore della pelle o l’accento sono usati come indicatori macroscopici di questa distinzione.
Ci aspetteremmo che Stephen si sistemi nella casella “buoni” in ossequio alla regola del colore della pelle, così come, fino alla fine, ci aspettiamo che ci dimostri la propria umanità, la propria “natura” fondamentale, favorendo il ricongiungimento tra Django e Broomhilde.

Eppure non lo fa. Non solo: denuncia pure l’intrigo a Candie e si rende, di fatto, il motore della vicenda che sembrava destinata ad una più rapida conclusione.
Tutto nel film, perfino l’inattesa espansione e complicazione nel (quasi) finale indicano una specie di riassestamento che pone Stephen al centro della vicenda. Non da ultima la scelta del regista di affidare il ruolo a quello che probabilmente è il suo “attore feticcio” per eccellenza.

Ma chi è Stephen?
È il traditore della sua gente, della sua classe, dei suoi stessi interessi;  il tutto a causa di una strana spinta interiore che è davvero difficile inquadrare o motivare e che i Romani tanto tempo fa chiamavano libido adsentandi: il gusto di compiacere, di servire; il piacere quasi fisico di assecondare con spontanea solerzia il volere del potere.
È la figura della connivenza con il Male che ci interroga proprio quanto più cerchiamo di eliminarla attraverso una narrazione del mondo facilona  che ci vede sempre ed inevitabilmente assumere la parte delle vittime innocenti.

L’atto di rifiutare la stretta di mano, per quanto motivato e condivisibile ci possa sembrare, presuppone proprio una narrazione del mondo, un racconto implicito della realtà basato su opposizioni, che divide sommariamente il Bene dal Male, il Buono dal Cattivo, il Vero dal Falso, e che molto spesso non aiuta ad identificare e combattere quelle “sacche di connivenza” che spesso e molto banalmente sono il vero e proprio motore dell’ingiustizia. Inutile sottolineare che si tratti di una narrazione un tantino consolatoria e auto-assolutoria (però andate voi a dirglielo alla “cittadina” Rostellato…).

Provare a sfuggire ad un racconto di questo genere non vuol dire affatto auspicare il compromesso, tutt’altro: significa interrogare noi stessi e scovare il piccolo vecchio Stephen che ci portiamo appresso, senza voler recitare a tutti i costi la parte della vittima che medita (e merita) vendetta, favorendo così una comprensione della realtà più sincera.
Il fatto è che nel mondo di Django Unchained  Stephen c’è,  mentre nella nostra piccola realtà quotidiana pare sia quasi impossibile trovarlo: è troppo più facile attribuire a un “altro” tutte le responsabilità delle nostre difficoltà, dell’ingiustizia, della sofferenza, del dolore.

Dire che Tarantino sia riuscito nel suo intento significa decidere che la spregevolezza di Stephens non affoga nei sanguinolenti propositi di vendetta di Django. Che il successo della vendetta non copre il peso della responsabilità.
Per conto mio posso dire che uscendo dalla sala non ho potuto fare a meno di pensare a tutte le volte che ho taciuto e avrei dovuto parlare, sono stato fermo e avrei dovuto muovermi, ho lasciato correre e avrei dovuto oppormi. Tutte le volte che, incomprensibilmente, ho agito vigliaccamente contro il mio bene, appoggiando il potere in una qualunque delle sue forme. E, ahimè, non sono state poche.

Aggiungo però che c’è un’altra categoria di persone rappresentata nel film che esula dallo schema delle pure opposizioni e che merita di essere nominata perché ingiustamente sottovalutata: una categoria misconosciuta che agisce spesso nell’ombra e nell’oscurità, ma che produce i più vari e notevoli effetti sulla realtà.
Una categoria che prima o dopo coinvolge tutti, ma della quale troppo poco spesso ci sentiamo di far parte a pieno titolo e grande è il merito di Tarantino per averla magistralmente rappresentata nella sua rutilante pienezza.

La categoria dell’idiota totale:

 

http://www.youtube.com/watch?v=IzctYuh90Dc&width=420&height=315

 

A noi poi non resta che scegliere se raccontarci un mondo di supereroi e supercattivi, o uno di connivenza spicciola e sacchetti coi buchi. Per poter magari cominciare a cambiare le cose.

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